Muoversi 2 2021
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COSA È RIMASTO DOPO IL “VIAVAI” DEI MARCHI SULLA RETE CARBURANTI

COSA È RIMASTO DOPO IL “VIAVAI” DEI MARCHI SULLA RETE CARBURANTI

di Giorgio Carlevaro

Proseguiamo la nostra Storia del Petrolio, curata da Giorgio Carlevaro, con il racconto dei tanti marchi che si sono susseguiti sulla rete carburanti sin dai suoi albori. Un vero e proprio turbinio di cessioni, acquisizioni, abbandoni e ripensamenti che ci porta alla rete di oggi che conta centinaia di marchi e migliaia di proprietari, non sempre conosciuti. 

Giorgio Carlevaro

Direttore emerito

Staffetta Quotidiana

In principio, alla fine dell’Ottocento, i marchi non c’erano e non c’erano neppure i benzinai. C’erano solo “pompe” di benzina isolate, appoggiate a droghieri, gestori di bar, farmacisti e garagisti. Il primo marchio che si ricorda è quello della Esso, entrata sul mercato italiano nel 1891, 130 anni fa, che rivendica di aver introdotto in Italia il primo distributore automatico stradale nel 1922. Da allora di strada ne è stata fatta molta. Oggi di marchi ce ne sono 240 di cui si conosce il nome, più un numero imprecisato di cui il nome invece non si sa. Quanto alle pompe, sono sparse in punti vendita e stazioni di servizio, anche self e ghost (senza cioè la presenza di un operatore). Impianti stradali e autostradali che sommati insieme oscillano tra 21.000 e 23.000.

Il numero complessivo dei punti vendita, come pure sul numero dei marchi, è sempre stato uno dei rebus della rete carburanti italiana. Anche oggi, che sono in funzione presso il ministero dello Sviluppo Economico un “Osservatorio dei prezzi dei carburanti”, operativo dal 2015, e, separata, una “Anagrafe nazionale carburanti”, operativa dalla fine del 2018. E questo non per cattiva volontà o inefficienza, ma per via delle cosiddette “pompe bianche” che sono state sempre difficili da catalogare e conteggiare. E che, a dispetto del nome, non sono, è opportuno ogni tanto precisarlo, pompe che non innalzano alcun marchio, solamente non fanno capo alle compagnie petrolifere italiane e internazionali. Oggi, per intenderci, a quelle rimaste ancora sul mercato dopo gli “anni d’oro” del petrolio: Api-Ip, Eni-Agip, Kupit Q8, Esso, Tamoil e Repsol che insieme sommano circa 15.000 impianti. Con un’altra complicazione, quella, nel caso dei marchi più importanti, degli impianti di proprietà e degli impianti convenzionati.

Un numero, quello delle “pompe bianche”, che fino ad un certo punto si era andato restringendo e poi, a partire dalla liberalizzazione del governo Monti del 2012, si è andato invece allargando, anche a causa del disimpegno e dell’uscita dalla rete di compagnie che disponevano di un cospicuo numero di impianti, non meno di 1.000 e anche più. Fatti che hanno favorito il diffondersi della “polverizzazione” che ha portato alla proliferazione di marchi visibili solo su un punto vendita o al massimo 10. Un fenomeno che basta girare per le strade per percepirlo. Marchi sconosciuti su punti vendita che praticano prezzi spesso molto competitivi. Un fenomeno su cui si soffermò il presidente dell’UP (oggi unem) Claudio Spinaci in un’intervista del dicembre 2017 alla Staffetta rilevando come alcuni di questi impianti avessero meno di 350mila litri di erogato. “Con quei litri, osservò, non puoi fare prezzi particolarmente aggressivi e se l’attività sta in piedi forse è sostenuta da qualche attività illecita. Non sto dicendo che è un fenomeno che riguarda tutti, ma in certi casi credo sia così”.

Strano a dirsi non aiutano a risolvere il rebus le rilevazioni quotidiane dell’Osservaprezzi raccolte in un dossier pubblicato ogni giorno sulla Staffetta che ad oggi somma ben 195 pagine anzi in un certo senso lo complicano. Si trovano, da una parte, frammisti ai dati delle poche compagnie rimaste sul mercato, i prezzi relativi ad un numero di “pompe bianche” che, a seconda dei giorni, oscilla tra i 3.200 e i 3.700 impianti di cui si non si sa a quali marchi facciano capo considerato il titolare dell’impianto non è obbligato a comunicarlo all’Osservatorio e non lo comunica. E poi ci sono grosso modo altri 3.000 e passa impianti ripartiti tra circa 200 marchi, di cui invece si conosce il titolare.

Una tipologia di impianti, quella delle “pompe bianche”, che negli ultimi anni è venuta quindi assumendo un peso ragguardevole nella configurazione della rete, incidendo su quella che era stata per molti anni un’infrastruttura dove il peso delle compagnie era di gran lunga preponderante, così come fotografata nelle serie statistiche aggiornate ogni anno da unem, di fatto le più omogenee e attendibili tra quelle che circolano. Nell’ultima disponibile, che va dal 1975 al 2018, si rileva infatti che, mentre il peso dei marchi principali è sceso dal 91 al 71%, quello della voce “altri”, che comprende anche le “pompe bianche”, è salito dal 9 al 29%. Anche volendo prendere come base, pur con tutte le riserve che abbiamo avanzato, gli impianti censiti dall’Osservaprezzi, oggi i 15 marchi grandi   e medi che comprendono IP, Eni, Q8, Esso, Tamoil, Repsol, Retitalia, Europam, Keropetrol, San Marco Petroli, Beyfin, Costantin, Ego, Energas e Vega, rappresentano grosso modo il 70% del mercato.

Una rete che a partire dal 1926 è stata caratterizzata dalla presenza dell’Agip, arrivata a detenere all’inizio degli anni ’80 una quota di mercato vicina al 40% e che oggi è scesa intorno al 20%. Una rete su cui Mattei, a partire dal 1953, dopo l’istituzione dell’Eni, innalzò il logo del Cane a sei zampe che da allora è diventato famoso in tutto il mondo quanto quello della Esso e della Shell. In un mercato in cui proprio la Esso ha fatto da battistrada ad un via vai dell’industria petrolifera internazionale. La prima società che, oltre ad adottare dal 1922 i primi distributori automatici, è stata anche la prima ad adottare nel 1932 la definizione del numero di ottano, con campagne promozionali che restano storiche come “Metti un tigre nel motore”. Con la Mobil entrata nel 1901 come Vacuum Oil e uscita nel 1990 acquistata dalla Q8, con la Shell entrata a sua volta nel 1912 come Nafta e uscita nel 1974 come Shell Italiana acquistata dall’Agip che le cambiò il marchio in IP. Shell che rientra nel 1980 rilevando la rete Conoco, poi rafforzata con una serie di acquisti, fra cui, nel 1987, la rete Selm fino a raggiungere ben 1.200 impianti che saranno venduti nel 2013 alla Q8. Con la BP entrata e uscita a sua volta tra il 1955 e il 1973, la cui rete viene rilevata dal gruppo Monti che cambia il marchio in Mach, salvo poi, quando il gruppo fallisce, essere smembrata nel 1981 tra Agip, Elf e IP.

Con la Kupit, che dal 1986 innalza il marchio Q8, che è a tutti gli effetti la prima società di un Paese produttore, il Kuwait, a entrare sul mercato italiano, avendo rilevato nel 1984 l’americana Gulf entrata a sua volta in Italia nel 1950: la prima società a scoprire petrolio in Sicilia. Oggi la Q8 è presente sul mercato con circa 2.700-3:000 impianti e una quota stimata intorno al 12,5%. Seguita dalla Tamoil (ex Amoco), ceduta dal libanese Tamraz alla Libia nel 1985, oggi presente a sua volta sul mercato con circa 1.300-1.500 impianti e una quota a sua volta stimata intorno al 6,5%.

Senza dimenticare la presenza sul mercato, a partire dagli anni ’30, delle italiane Erg e Api. La prima con una rete sviluppata nell’entroterra genovese dopo la guerra, unita nel 2010 a quella della Total  in TotalErg.  La seconda cresce invece con successive acquisizioni a partire dalla rete IP nel 2005, che poi viene unificata con gli impianti Api nel 2008 sotto il nuovo marchio “IP Gruppo Api”, e nel 2017 con l’acquisto della TotalErg (che porta all’uscita dalla rete sia di Total che di Erg che così abbandona definitivamente il settore oil). Oggi sopravvive solo il marchio IP che, dopo il rebranding seguito a queste acquisizioni, oggi svetta sui circa

5.00 impianti che fanno capo appunto al gruppo Api, che guida la classifica in termini di numero di punti vendita con una quota di circa il 24%. Un marchio oggi ben visibile su tutte le strade e le autostrade italiane, che era stato valorizzato e rilanciato a suo tempo da Guido Albertelli quando, nel 1984, diventò presidente della IP facendone un emblema di italianità, sportività, dinamismo ed energia.

Con una serie di passaggi di minor peso, come quello della cessione nel 1987 da parte di Fintermica dei punti vendita  ex Texaco alla Tamoil. O quello dell’acquisto nel 1994 da parte della cordata Contini/Messina/ Vannucci della Cameli Petroli che nel 1990 aveva incorporato la Pontoil e la raffineria Icip di Mantova e il cambio di nome in Ies. Un marchio che, anche dopo la vendita nel 2007 della società alla ungherese Mol, sarà presente sulla rete italiana

fino al 2017 quando i restanti 46 impianti saranno venduti pure questi alla Tamoil. O quello della spagnola Repsol, presente in Italia sul mercato extra rete dal 1993 e che oggi detiene in Italia 320 punti vendita, tre quarti dei quali convenzionati. Cominciando con l’acquisto nel 2004 dei 44 che facevano capo alla Falkpetroli. Rete che potrebbe presto essere ceduta alla Tamoil o alla Petrolifera Adriatica.

Tra i fatti che hanno segnato l’ultimo decennio uno importante è la vendita della rete Esso, forte di circa 2.500-2.600 impianti con la formula innovativa del “modello grossista” che le ha consentito, trasferendo ad altri operatori la proprietà dei rami di azienda costituiti da gruppi di stazioni di servizio e dei relativi contratti, di mantenere il proprio marchio sui punti vendita venduti e continuare ad operare nel business delle attività di distribuzione e vendita dei carburanti con una quota stimata intorno al 12%. Un’operazione iniziata nel 2012 con 75 impianti (di cui 9 convenzionati) ceduti a Retitalia e conclusa nel 2017 con un altro pacchetto di 1.176 impianti (di cui 101 convenzionati) venduti a EG Italia. Con in mezzo altri cinque pacchetti trasferiti a Amegas, Basile Petroli, Enerpetroli, Petrolifera Adriatica e Som.

Un periodo, quello che stiamo raccontando, segnato tra l’altro, dopo “gli anni d’oro del petrolio”, dalla chiusura delle raffinerie di Bari, Volpiano, Bertonico, La Spezia, Gaeta, Rho, Napoli, Trieste, Cremona, Mantova e Pantano di Grano, dalla vendita del 50% della raffineria di Milazzo dell’Agip alla Kupit, della raffineria di Priolo della Erg alla russa Lukoil e della raffineria di Augusta della Esso alla algerina Sonatrach e dalla trasformazione in bioraffinerie delle raffinerie Eni di Marghera e di Gela.

Una serie di passaggi e di snodi che nell’arco di 50 anni hanno profondamente mutato non solo il volto del downstream petrolifero italiano, ma di tutta la filiera petrolifera. Alla vigilia di un periodo di transizione di cui si indicano i traguardi, ma di cui sono ancora incerti i tempi e le modalità per raggiungerli. In concomitanza con il lento ma irreversibile declino dei consumi petroliferi, aggravato da ultimo dall’emergenza Covid che ha investito dallo scorso anno tutta la filiera. Pur non venendo meno per ora il ruolo insostituibile della fonte petrolio in termini di disponibilità, versatilità, economicità e anche di sicurezza.